A noi non interessa sapere se queste opere siano illustrazioni venate d’arte o arte tagliata con l’illustrazione. L’editore o il collezionista che arrossiscono davanti ad un tale quesito non saranno mai ricchi né vanteranno mai primati. Possiamo comunque dire che seppur il suo ambiente naturale sia quello della comunicazione (è stato per dieci anni art director in campo pubblicitario), egli non illustra affatto. Ruba piuttosto alla realtà e al suo chiacchiericcio, alle sue strade, ai suoi oggetti ai suoi volti, ai suoi vizi; talvolta alle sue virtù. Le opere di Tagliavini vengono elaborate in tutto questo via vai, impastate nel suo quartiere, stese a pennello, infornate a computer. Da cotte esse non hanno più l’aspetto di ciò che erano: esse infatti producono un chiasso tutto nuovo e fanno finta di non avere mai avuto un soggetto. Le immagini di Tagliavini non invidiano la realtà: ci si insediano; si accomodano sicure e si accoppiano tra loro. Alcune stanno comprando casa ed altre si sono sistemate in condominio, vicine di pianerottolo, per raccontarsi fatti. Alcune, malate, sono rimaste a letto, a guardare nel vuoto, schiacciate dal peso di essere state pensate. Tagliavini lavora questa merce preziosa e ne rimane intossicato, producendo, come solo un artista può fare, in una sorta di ebbro malessere. Producendo cosa? Perturbazioni, alterazioni, cronache reali con un colpo di tosse o uno sbotto di riso. Le immagini di Tagliavini, frutto del suo sguardo veloce e sottile, diventano, dopo il passaggio al computer, delle tecnoicone; oggetti umani, scene sintetiche.
Questo suo modo di isolare i colori, abbatterli gli uni con gli altri, scandirli in quelle forme decise, coincide con la volontà di rendere le proprie immagini autonome, viventi, dotate di carattere. Persino spavalde. Esse si concedono di avere uno spirito pop ed ultramoderno nonostante il suo autore, che di pop ha solo la curiosità e la ferocia. Una mite ferocia che gli permette di essere elegante e caustico, allusivo ma non scostumato; è proprio questo aspetto che lo ha reso papabile nel campo dell’editoria.
Fateci caso: sebbene il suo tratto sia riconoscibile e il suo stile individuabile, ogni immagine scalpita per eliminare la presenza del suo autore, per dar l’impressione di essere sempre stata lì, disegnata da nessuno, gonfia in petto di una storia tutta sua. Questa sorta di isolamento è frutto di una regia scaltra, di un’altra di quelle folli menti che hanno rinunciato consciamente alla realtà, sostituendola, tassello per tassello, con qualcosa di altrettanto improbabile. Ed inoltre, dopo pochi minuti che si osservano le immagini di Tagliavini, si prova una certa familiarità, come se le avessimo viste da sempre; esse sono intonate al nostro spirito, si accomodano tra le nostre volontà, punzecchiano le nostre paure e stanno comode comode nel nostro ipergrafico salotto IKEA. Ed è allora che con sconcerto ci accorgiamo che forse questo autore da tempo ha smesso di illustrare e di lavorare con l’immagine. Ciò che invece sta facendo da tempo è citare, elaborare, truccare, erodere, manipolare, contaminare l’immaginario.
Perciò, attenzione a Tagliavini.
Francesca Marianna Consonni